Politica digitale: non è solo wow o chissenefrega

A che punto siamo e dove stiamo andando nella politica digitale italiana? Tra annunci, accordi, progetti e piccoli commi, una marcia lenta, forse giusta.
A che punto siamo e dove stiamo andando nella politica digitale italiana? Tra annunci, accordi, progetti e piccoli commi, una marcia lenta, forse giusta.

Il contesto globale di tutte le iniziative politiche è ormai sempre più legato al digitale, tanto che anni fa un certo Luca De Biase suggerì di creare una valutazione di impatto digitale per tutte le leggi in discussione in Parlamento. Altri tempi, quando mancava quasi totalmente nell’assemblea una cultura della trasformazione digitale dell’impresa e della società. Oggi si sono fatti dei passi in avanti, non c’è dubbio che gli ultimi governi stiano digitalizzando e allora le domande sono: a che punto siamo e dove stiamo andando?

La politica digitale, la transizione tecnologica, culturale, progettuale, implicata nelle decisioni del governo. Ne hanno parlato Paolo Barberis, consigliere per l’innovazione del presidente del Consiglio Matteo Renzi, e il giornalista Luca De Biase, stimolati da Massimo Mantellini, in un panel al Festival del Giornalismo. Alcune brevi riflessioni piuttosto coraggiose e franche (la parentesi di Perugia ha una buona tradizione in questo senso), in particolare quando si è trattato di capire cosa può fare la politica per non deludere le aspettative – a volte gonfiate – della cittadinanza. Mica facile, visto che siamo stretti, nella narrazione dell’innovazione, «tra la Scilla del Wow e la Cariddi del chissenefrega», per dirla con De Biase.

Le anomalie positive

Nei primi anni duemila, il rumore dei nemici tuonava a spron battuto. Si facevano leggi che complicavano l’accesso al wifi oppure trasformavano i blog in testate giornalistiche. Oggi in aula c’è l’Intergruppo per l’innovazione, parlamentari come Stefano Quintarelli esercitano fino in fondo la loro “anomalia” E poi c’è stato un cambiamento politico che De Biase cita apertamente:

Alla fine degli anni Novanta l’Italia non era affatto un paese arretrato: i report ci mettevano in alto in molti servizi, eravamo tra i primi. Poi c’è stato un cambio di orientamento in cui tutto si è focalizzato sulla televisione, e dal 2001 al 2012 abbiamo perso molta molta strada.

L’app store di Stato

Chi deve recuperare quella strada si trova nella strana situazione di maneggiare una tecnologia nel frattempo diventata terribilmente instabile, come ammette Barberis:

Siamo passati dal web alle app e adesso ci sono i bot. Se per le imprese è complesso restare aggiornati, immaginiamo facilmente il procedimento politico. Da parte nostra, crediamo che le aziende debbano essere alleggerite nella trasformazione digitale.

Italia login, lo stesso Spid, sono le componenti di un possibile ecosistema proprietario. Gli ultimi esecutivi hanno lavorato per mettere in cloud gli open data, le istruzioni di design dei siti della pubblica amministrazione, perché il digital divide culturale degli enti pubblici è reale, non un luogo comune.

C’è un senso di imbarazzo, spiega Mantellini, nel cercare di seguire l’entusiasmo del deputato che cerca di far capire al giornalista «che togliere un aggettivo a un emendamento avrà grandi conseguenze, è una svolta». Sulle startup si è costruito un sistema che l’opinione pubblica ha compreso subito, sull’agenda digitale molto meno. Sembra tutto molto, troppo piccolo, soprattutto fra aspettative e proposte. E la sincerità di Barberis è salutare:

Fare digital trasformation è un progetto, mentre la politica procede per norme. Ci si mette attorno a un tavolo e magari una persona parla di progetti mentre altre nove ti dicono che ci sono delle norme che lo impediscono. Quando banalmente abbiamo messo mano al sito di Governo.it, c’era persino un certo orgoglio da parte di alcuni nel sottolineare che era rimasto lì per 17 anni e tutto sommato funzionava ancora. Peccato che era scritto con un codice ormai inutilizzabile, senza senso, e che non si trovavano le notizie.

L’idea forte che emerge dalla politica digitale, nel giorno della notizia sulla banda larga – premessa di tutto quanto – è quella di realizzare gli standard per un app store della pubblica amministrazione: un luogo dove ogni cittadino potrà scaricare ciò che gli serve per utilizzare i servizi a lui destinati e per dialogare con gli enti pubblici. Tutto quanto visto sinora, a partire dai siti realizzati insieme all’Agid e gli stessi criteri per il pin unico, sono i mattoncini della politica digitale dei prossimi anni. Senza nessuna scadenza. Tanto si finirebbe soltanto per restarne delusi, quando invece è più importante l’architettura che non abitarla subito.

Resta il dubbio sui percorsi democratici di questi piani, che a volte – come nel caso di SPID o del FOIA – lasciano a desiderare in quanto a partecipazione, trasparenza. Sarà il dover recuperare nel minor tempo possibile, oppure una qualità intrinseca della nuova classe dirigente, tuttavia dalla zero digitalizzazione siamo passati alla digitalizzazione soon is better than perfect, inevitabilmente subordinata alle aziende, agli interessi privati di chi può fornire risorse, tecnologia, investimenti, servizi. Che a ben vedere, quel “presto” è molto relativo.

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