La potenza democratica dell'hashtag

Jeff Jarvis plaude all'hashtag su Twiiter: un piccolo tag dalle grandi potenzialità. Nessun social network riesce a fare altrettanto, perché Twitter ha semplicemente deciso di non filtrarlo, non troppo.
Jeff Jarvis plaude all'hashtag su Twiiter: un piccolo tag dalle grandi potenzialità. Nessun social network riesce a fare altrettanto, perché Twitter ha semplicemente deciso di non filtrarlo, non troppo.

In un lungo e come sempre stimolante post, Jeff Jarvis, uno dei guru di Internet, ha scritto un vero osanna all’hashtag. Nonostante i tanti social network e le loro strabilianti funzionalità, questo piccolo tag è secondo l’influente blogger americano, scrittore e insegnante di giornalismo a New York, un vero e proprio medium.

Nell’era dei media 2.0, è venuto il momento di analizzare quanto sia diventato importante quel segno “#” prima di un termine, capace di catturare e agglomerare i tweet facendone dei trend topic, cioè portandoli in alto nella classifica degli argomenti più citati. Classifica, è bene ricordarlo, basata su 200 milioni di cinguettii al giorno.

Segno dei tempi è il fatto che Jarvis abbia postato questa riflessione sul suo nuovo profilo di Google Plus, rendendola pubblica.

“Un hashtag non è marketing, non è un media o un messaggio politico, il cui autore pensa che può essere creato e controllato. Non è come lo spazio dei domini, su Facebook e Google +, o un marchio: è per tutti coloro che possono utilizzarlo senza autorizzazione o pagamento. Non è un dizionario con una sola definizione.”

Lo spunto viene da un episodio marginale, quasi goliardico: il successo di un hashtag decisamente criticato, #fuckyouwashington (inutile la traduzione), che tanto scalpore ha suscitatp tra i benpensanti, soprattutto politici.

Eppure, come racconta Jarvis, c’è stato poco da fare: l’hashtag ha raccolto molte opinioni politiche e anche sull’opportunità che l’hashtag avesse proprio quel nome, ed è diventato un trend topic.

“L’hashtag è aperto e profondamente democratico. Alcune persone vi si riuniscono attorno. Lo leggono, possono diffonderlo o ignorarlo e farlo appassire. Lo infondono di significato. Il creatore rapidamente e inevitabilmente perde il controllo di esso. […] Quando mi hanno suggerito di cambiarlo per evitare problemi e farlo salire ancora di più nella lista dei trend ho rifiutato, anche perché hanno fatto l’errore di pensare che potevo controllarlo più di quanto in realtà abbia mai potuto.”

Sulle statistiche di Twitter e sull’intervento di filtri sui trend si dicono e leggono molte cose, da anni, ma in realtà a oggi sembra non esistano filtri per la lista degli argomenti e quindi neppure per gli hastag.

In soli quattro anni (quando è stato inventato dal consulente Chris Messina), questo tag ha davvero segnato molti eventi delle reti sociali. Ne abbiamo scritto spesso anche qui su oneWeb. Basti pensare alle rivolte nel mondo arabo, come in Egitto, Iran, Libia, oppure alla rivoluzione giovanile in Spagna e in mezza europa.

Anche la politica italiana è stata contrassegnata dagli hashtag: cosa sarebbero state le elezioni milanesi senza le prime, geniali morattiquotes e i tormentoni sulla moschea di Sucate? Così, Jarvis chiude con un auspicio sicuramente condivisibile:

“Finora, il suo potere è stato limitato a Twitter. Ma io vedo l’opportunità di espandere il suo utilizzo su altre piattaforme. Quando Google + finalmente avrà una ricerca interna e rilascerà la API, sarebbe bello consentisse agli utenti di inserire facilmente i tag e conversazioni attorno ai dei cluster. C’è la possibilità di utilizzare dati dei tag per conoscere meglio l’attualità delle conversazioni e dei contenuti in tutta la rete, su Twitter, Google +, Tumblr, Flickr, YouTube, magari su Facebook.”

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