Bye bye, TTIP

La Camera di Commercio americana in Italia traduce il punto di vista statunitense sul trattato: ma con la Brexit l'ottimismo è ai minimi termini.
La Camera di Commercio americana in Italia traduce il punto di vista statunitense sul trattato: ma con la Brexit l'ottimismo è ai minimi termini.

Sotto molti aspetti il TTIP è un accordo di libero scambio diverso da tutti gli altri, più ambizioso e complesso, per questo chi ci sta lavorando ammette con dispiacere il suo possibile fallimento. Persino gli americani, soprattutto dopo la Brexit, cominciano a guardare molto in là nel tempo, dopo il turn over di elezioni che nel 2017 e 2018 stravolgerà ancora tutto. Sperando che serva a ripartire con uno spirito nuovo.

Dove si era rimasti? Alle parole da training autogeno del presidente Juncker, che la settimana scorsa assicurava di aver ricevuto mandato dal consiglio europeo di proseguire con le trattative. Forse più che altro serviva a non bruciare la Commissaria per il commercio, la svedese Cecilia Malmström, volata a Washington per i lavori preparatori del prossimo round (il 14°) in programma a Bruxelles dall’11 al 15 luglio, quando gli europei ospiteranno i colleghi americani per continuare la discussione. Su cosa? Il TTIP è un oggetto strano: alcuni aspetti sono già risolti, come gli standard dei prodotti (la paura principale dei critici, quasi completamente inventata rispetto ai veri ostacoli del trattato) mentre il livello politico, preoccupato soprattutto dell’occupazione e delle ricadute economiche concrete, è lasciato al dibattito tra partiti.

Quel che è certo è che la tanto chiacchierata “finestra di opportunità” prevista per la fine del 2016 è ormai persa: né Francia, né Germania sono intenzionate a firmare il testo (e hanno ragione), anche il ministro italiano, Calenda, ha affermato di ritenerlo impossibile per la mancanza di fiducia interna alla delega degli stati membri alla Commissione Europea. Premesse così disastrose che la stessa Camera di Commercio americana in Italia, sostenitrice del TTIP, pur continuando a promuoverne gli scopi guarda ormai ai prossimi anni.

Intervista a Simone Crolla

Simone Crolla gira il paese per parlare di TTIP insieme alle categorie professionali coinvolte. Da consigliere delegato nel board e direttore dell’AmCham, la Camera di Commercio americana in Italia, parla soprattutto di numeri, che danno ragione al progetto, al di là del suo attuale stato di avanzamento. I principali punti di forza riguardano le relazioni che gli Usa hanno già col vecchio continente e l’interesse reciproco a saldarli con un accordo a costo zero e vantaggio certo.

La Brexit è una complicanza?
Notevolissima. Il Regno Unito era il partner più convinto del TTIP, ha sempre spinto per gli FTA. C’è oltre all’assenza diciamo culturale, anche il problema della sostituzione del personale negoziatore. La Brexit cambia gli asset negoziali, non c’è dubbio che ora il TTIP è ancora meno probabile che in precedenza.

È uno stop definitivo? Una battuta d’arresto?
Credo e spero una battuta d’arresto. Non scordiamo che il TTIP è relativamente giovane, non ha neppure tre anni, altri negoziati hanno impiegato più tempo, perciò penso ancora possa prevalere in qualche forma l’idea che sta alla base.

Quale sarebbe questa idea?
Che se si misurano gli intescambi commerciali Usa-Europa, anche guardando all’Italia, e si considera il mercato globale, il TTIP è un boost all’economia che non si può perdere soltanto perché si è dato fiato alle trombe al complottismo antiamericano e alla sfiducia verso l’Europa.

Con Londra che si è chiamata fuori chi potrebbe guidare la trattativa? E non è vero, forse, che gli Usa fanno orecchie da mercante sui bandi per gli appalti? Lo stesso Fabrizio Spada, da noi intervistato, ha ammesso il problema.

Questo è vero. I negoziatori americani aprono agli appalti pubblici per le imprese europee su suolo americano, ma con un vincolo: la metà dei prodotti utilizzati dev’essere americano. Onestamente non lo vedo come ostacolo insuperabile, penso si possa ovviare. Ci sono già molte aziende europee, e italiane, che aprono negli Usa e lavorano sul suolo americano. Certo, va ancora trovato un equilibrio. Il public procurament americano è meno rigido di quanto sembri.

Sembra un match dove le parti ancora non si scoprono: gli Usa aggrediscono su cibo e sanità, la Commissione su appalti e tutele giuridiche; in realtà prevale la difesa.

Non ho insight particolari, posso soltanto dire che finora ho visto molti advisory board coinvolti nei lavori preparatori ai round negoziali e tutto si può dire tranne che gli addetti ai lavori e i portatori di interesse non abbiano voce o partecipazione. Credo che il livello complesso di discussione e la lentezza derivino proprio dall’informazione. Certo, non è materia per chiunque, è normale che gran parte della gente e magari anche dei deputati ed eurodeputati non ci capiscano molto, ma è ben costruito.

L’Italia, si sa, è paese che ha vocazione all’export: la Camera di Commercio americana che dati ha?
Il Made in Italy si distingue da sempre per le tre “f”: food, fashion, furniture. Valgono 10,2 miliardi di dollari. Gli Usa sono il terzo mercato per l’export italiano, il 7,5% del market share; negli ultimi tredici anni è cresciuto di oltre il 70%. Anche gli investimenti bilaterali sono cresciuti, però se si guarda al valore relativo il Belpaese è ancora indietro. Il trattato può far crescere la posizione italiana a livello europeo in attrazione di investimenti: oggi è tredicesima.

Perché gli Usa non aspettano l’Europa e in campagna elettorale si parla poco di TTIP?
Perché l’america ha stipulato venti accordi di libero scambio e hanno concluso, in attesa di ratifica, le negoziazioni sul TTP, con 12 paesi dell’area del pacifico; stanno lavorando a un BIT (un accordo bilaterale) con la Cina. Sono forti di questi negoziati conclusi e del risultato buono già visto. D’altra parte anche l’Europa dovrebbe avere meno remore, ha già registrato i risultati positivi dell’accordo con la Corea del sud che ha aumentato le esportazioni di svariati miliardi di euro.

Come finirà?
Attualmente è certo solo che si andrà avanti fino al 2020. Come, non si sa. Se il nuovo presidente fosse Donald Trump, ad esempio, potrebbe esserci una interruzione sia con la Cina che con l’Europa e un focus maggiore con altri paesi.

Paradossi e certezze

Il caso TTIP è interessante perché probabilmente insegna qualcosa sul rapporto schizofrenico tra cittadini europei e istituzioni. Nello studio sviluppato dal Cologne Institute for Economic Research, per sondare l’orientamento della popolazione in un paese dove si è svolta la più grande manifestazione anti TTIP in Europa (150 mila persone scese in piazza), emerge tutta la contraddizione fra il pensiero sostanzialmente liberale, favorevole al libero scambio e la decisa opposizione al trattato. Come se il principio che ormai guida l’opinione pubblica fosse “sono d’accordo ma soltanto finché non lo attua la politica”. E così, i due terzi dei tedeschi intervistati con grado di istruzione elevato e capacità di analisi, riconoscono il significato di un trattato di libero scambio, ma al contempo prevale in loro lo scetticismo: più si procede dal concetto di trade a quello di TTIP più l’orientamento è negativo. Nonostante di fatto si parli della stessa cosa.

In questa serie di paradossi, ci sono poche certezze, anzi due sole: la sequela di elezioni che andrà a frapporsi tra i prossimi negoziati e la Brexit. L’uscita dell’UK dal negoziato, infatti, potrebbe anche convincere il vecchio continente a cercare un accordo di libero scambio con Londra prima che con Washington. Ma Londra potrebbe anche preferire pensare da sola a un accordo con gli Usa («l’UK è diventato il 51° stato americano», hanno detto alcuni commentatori di quà e di là dell’oceano) Gli appuntamenti per il rinnovo delle cariche pubbliche sospende di fatto il TTIP, che andrà a rilento e attenderà il biennio 2019-2020 per provare a stringere..

  • Novembre 2016: Elezioni Usa con cambio di presidenza. Il mandato scade a gennaio 2017, ma ovviamente non toccherà a Obama occuparsi del TTIP ma ad Hillary Clinton, tiepida, oppure Donald Trump, contrario a prescindere perché l’ha confuso col trattato con la Cina (una delle miriadi di gaffe del repubblicano).
  • Primavera 2017: Elezioni presidenziali in Francia. Un Hollande debole, che ha già lasciato dire al premier Valls quanto di peggio si poteva dire sul trattato, e la possibile vittoria di Marine Le Pen mette in serio dubbio l’adesione d’oltralpe al TTIP
  • 2018: Voto nazionale in Germania e Italia. Due altri paesi cardine del negoziato, che finora hanno cercato di sostenere, ma con molti distinguo soprattutto su appalti pubblici e arbitrati. I cambi di maggioranza possibili cambierebbero di nuovo le carte in tavola. La sinistra tedesca e il movimento cinquestelle in Italia sono, da lati differenti, ugualmente ostili al TTIP.
  • 2019: Elezioni per il rinnovo di Commissione ed Europarlamento.

Ti consigliamo anche

Link copiato negli appunti