Brigate Facebook

Il fuoco incrociato contro Facebook è arrivato al corto circuito definitivo. I gruppi che inneggiano alla violenza si sono moltiplicati sull'onda dell'eco dei media mainstream ed il caso politico diventa un caso sociale. Eppure sarebbe bastato poco...
Il fuoco incrociato contro Facebook è arrivato al corto circuito definitivo. I gruppi che inneggiano alla violenza si sono moltiplicati sull'onda dell'eco dei media mainstream ed il caso politico diventa un caso sociale. Eppure sarebbe bastato poco...

Facebook ha nuovamente mandato in tilt il sistema politico italiano. La storia è quella di una strumentalizzazione generalizzata, senza bandiere e senza colori, un accanimento politico reciproco che ha utilizzato il social network come clava buona per ogni mano. Il caso è noto ed occupa tutti i tg nazionali: i gruppi anti-Berlusconi nati su Facebook.

Proveremo in questo rapido excursus a spiegare la situazione con un solo interesse: rendere manifesta l’evidenza grottesca di una situazione che sulla strada lascia solo danni.

Le verità sul caso sono molteplici, a seconda del punto di vista. Tutti, a loro modo, hanno ragione: il torto sta invece nell’approccio comune, nel guardare il solito dito invece della Luna. Ed è così che le cronache devono registrare anzitutto l’accusa, quella di Angelino Alfano: «La magistratura faccia il proprio dovere indagando, perseguendo e trovando coloro i quali inneggiando all’odio e all’omicidio commettono un reato penale. C’è un tema grande di sicurezza che riguarda la persona del presidente del Consiglio e io ho posto questa questione nel corso del Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica che si è svolto al Viminale». La vicenda viene quindi impugnata esplicitamente come motivazione politica dal Ministro della Difesa Ignazio La Russa: «Sembra incredibile che nessuno dei tanti soloni del politically correct abbia trovato il tempo e l’occasione per stigmatizzare, condannare, protestare o almeno evidenziare il fatto che la predicazione dell’odio nei confronti di Berlusconi abbia prodotto sulla rete la nascita di numerosi forum e pagine di Facebook che inneggiano e auspicano l’assassinio del presidente del Consiglio italiano».

La guerra a Facebook è in realtà una guerra del tutto interna alle dinamiche politiche, con la “sinistra” a combattere una battaglia a tutto campo contro Silvio Berlusconi e la “destra” a difenderne a spada tratta l’immagine. Poi, un’impudenza: un giovane coordinatore di una sezione locale del PD aggiorna il proprio status con un triste «possibile che nessuno sia in grado di ficcare una pallottola in testa a Berlusconi?». Le dimissioni immediate non sono sufficienti a cancellare l’atroce impudenza ed a pochi giorni di distanza è nuovamente Facebook ad offrire uno spunto alla “destra” per opporre argomenti alla pressione anti-premier della “sinistra”: i gruppi anti-Berlusconi sarebbero espressione di un clima di odio che rischia di sfociare in reali azioni violente.

Facebook, nel mezzo, non ha grosse possibilità di svincolarsi dalla bagarre politica. L’Italia dei Valori, nel frattempo, mette le mani avanti: «Siamo d’accordo con il ministro Alfano e sosteniamo la necessità di vigilare su quei siti e quei gruppi che incitano alla violenza e all’odio. Questa vicenda, però, non deve in alcun modo offrire il pretesto per imbavagliare la Rete. Ci opporremo strenuamente a qualsiasi tentativo da parte del governo di censurare il web e di limitare questo spazio di democrazia globale». Il Ministro dell’Interno Maroni, da parte sua, preannuncia seri provvedimenti: «Abbiamo dato disposizioni perché il sito contenente minacce al premier apparso su Facebook venga subito chiuso e denunciati alla magistratura quelli che sono intervenuti. Non credo che esista un paese del mondo dove qualcuno può scrivere su un sito “uccidiamo il premier”. È apologia di reato, anzi peggio. È un problema di cultura: se passa il messaggio che uno può scrivere impunemente queste cose, c’è poi il rischio che a qualcuno venga in mente di metterle in atto».

Ora, a queste verità occorre anteporne alcune utili a descrivere il contesto. Come opportunamente segnalato da Alessandro Gilioli, giornalista de L’Espresso (in questa battaglia satura di odor politico occorre mettere in campo con trasparenza le varie posizioni), i gruppi che perpetrano medesima apologia di reato sono in realtà molti: «Informo che tra gli altri anche Mughini, Bassolino, Mourinho, Moccia, Quaresma, Arisa, Hamilton, Ibrahimovic, Turigliatto, Vasco Rossi, Venditti, Maurizio Mosca, Salvatore Bagni, Giusy Ferreri, Enrico Varriale, Fabrizio Corona, Anna Tatangelo, Luca Toni, Zack Efron, Massimo Mauro, Britney Spears, Simone Perrotta, Max Pezzali, Valentino Rossi, Josè Altafini, i Dari e Topo Gigio condividono con Silvio Berlusconi l’onore di avere gruppi su Facebook che invitano al loro omicidio». A questi occorre aggiungere anche il famigerato gattino “Virgola”, quello delle suonerie, che ha meritato un gruppo ad hoc con oltre 9500 membri. L’elenco deve però comprendere anche “Karina” e “Costantino”, nonché “Patty” e molti altri personaggi. Alla query “uccidiamo” Facebook segnala almeno 500 risultati possibili. Il che non può non essere significativo.

Alfano, Maroni e La Russa hanno ragione su di un fatto inoppugnabile: non è cosa buona e sana uno sfogo che inneggia alla morte. Non è mai buono, in nessun modo, in nessuna forma, in nessun contesto. Tantomeno in questo momento di tensione. Quello che i tre non sanno, probabilmente, è il fatto che dar rilevanza pubblica a questi gruppi significa moltiplicarne l’esposizione. Perché se prima di questi giorni il gruppo “Uccidiamo Berlusconi” raggiungeva soltanto 12mila persone “colpevoli” di un click, ora le persone sono già 17mila ed il verbo è stato moltiplicato per i milioni di italiani che guardano la tv. Un messaggio tutto sommato sussurrato come boutade di pessimo gusto, grazie ai media mainstream diventa un urlo di vendetta dai toni esasperati.

Il corto circuito avviene a questo stadio: nel passaggio da poche bacheche a milioni di schermi. Con una stima molto semplice: su 100 italiani che hanno visto un tg nelle ultime 48 ore, il 45% non ha idea di cosa sia Internet (1 italiano su 2 non ha mai avuto accesso al Web). Il 55% degli italiani, quindi, ha la possibilità di formarsi una opinione propria sul fenomeno, sebbene in questo gruppo soltanto una fetta (sia pur se consistente) può asserire con sicurezza come e perchè nascano gruppi simili, come ci si iscriva e quale valore abbia la medesima iscrizione.

Il 45% degli italiani, chi non ha mai avuto accesso alla Rete, identifica nelle accuse di Alfano un giusto urlo al cospetto di una “Brigata Facebook” che trama nell’ombra contro un esponente politico. Non potrebbe essere altrimenti: se Facebook fosse un media mainstream (invece che un social network che propone soltanto i contenuti a chi li cerca tra i contenuti dei propri “amici”) il teorema sarebbe corretto. Difficile far capire a chi non conosce il Web quale sia la reale dinamica che va a scatenarsi. Il corto circuito dunque è tutto qui: informazioni impossibili da trasmettere, significati che non passano, incomprensioni di fondo basate su di una “ignoranza” tecnologica che fa da sfondo ad un dibattito politico dai contenuti corrotti.

Come se ne può uscire? Difficile a dirsi, perchè a dover essere curato non è il caso specifico ma un intero contesto socioculturale che nel 2009 ignora con troppa leggerezza il fenomeno Internet. La soluzione di breve periodo maggiormente prevedibile è la chiusura del gruppo (uno dei tanti) che minaccia l’integrità del Presidente Berlusconi. Con questo intervento Facebook chiude la parentesi, la Polizia Postale dimostra la propria attività, il dibattito politico sposta altrove le proprie attenzioni e gli utenti torneranno presto a inneggiare ad uccisioni multiple sulla spinta degli istinti quotidiani.

Ma non sarà questo palliativo a risolvere la situazione. E se c’è un gruppo che forse dovrebbe far conoscere la propria opinione in proposito è Google, già coinvolto in un caso per certi versi simile. Il tristemente famoso video del ragazzino affetto da Sindrome di Down, infatti, era stato postato su Google Video prima di essere rimosso dall’azione congiunta degli utenti che ne hanno segnalata la non-opportunità. L’analogia è nel meccanismo: un contenuto inopportuno che arriva online, la possibilità di segnalarne la sgradevolezza, l’intervento dei media mainstream che ne moltiplica l’eco sdoganandone definitivamente i contenuti.

Il processo contro Google è ancora in corso e Google sta compiendo un’opera di informazione nei confronti della giurisprudenza per rendere evidente quanto i meccanismi di filtro non possano funzionare, mentre i meccanismi di segnalazione siano maggiormente efficaci. In questo processo si potranno salvare tutti quei servizi che, se gravati da una responsabilità oggettiva sui contenuti degli utenti, chiuderebbero il giorno stesso. Ma l’intervento dei media e della politica rende nullo ogni filtro: comunicare pubblicamente, invece di denunciare privatamente, significa gettare un’occhio di bue su di un fenomeno che altrimenti sarebbe rimasto nascosto, confinato e circostanziato.

Incitare all’odio non è cosa buona. Come non è cosa buona dar voce a chi fa uso di questi improbabili (e inutili, e deleteri) strumenti di protesta. Lo dice la logica con il supporto del buon senso. Ma se si vuole risolvere un problema occorre anzitutto capirlo. E chi capisce questo caso, chi lo capisce davvero, sa che la soluzione era chiara, semplice e disponibile direttamente sulla pagina del gruppo incriminato:

Come segnalare una pagina inappropriata su Facebook

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