Di chi sono gli hashtag?

L'hashtag è nato su Twitter ma non è un suo servizio, piuttosto un principio organizzativo. A chi appartengono, allora?
L'hashtag è nato su Twitter ma non è un suo servizio, piuttosto un principio organizzativo. A chi appartengono, allora?

Per quale ragione ogni hashtag deve rispedire a Twitter? Domanda apparentemente eccentrica quella del giovane blogger Russel Brandom, che dal sito The Verge sottolinea un concetto sul quale è probabilmente venuto il momento di riflettere. L’hashtag è nato per caso, da un’idea di Chris Messina che cominciò ad utilizzarlo nell’agosto del 2007, e non è un servizio di Twitter quanto piuttosto una modalità di aggregazione e organizzazione autogeneratasi sul social network, che funziona altrettanto bene su Instagram o Google+, per esempio. Qualcuno prevede che questa miniera d’oro di informazione, di utenti, di conversazioni, non potrà ancora a lungo essere associata esclusivamente al microblogging dei 140 caratteri.

Il rapporto tra gli hashtag e Twitter riguarda potenzialmente la proprietà intellettuale nell’era dei social network e quindi del relativo business. Facile immaginare quanto sia appetitoso per i colossi della Silicon Valley. Gli hashtag sono molto popolari, spesso superano per flusso le inserzioni e gli hashtag creati dagli inserzionisti (in america se ne parla molto dopo l’ultimo SuperBowl, evento che ha frantumato ogni record di tweet per eventi sportivi nazionali). Sono in pratica un gioiello semantico, grezzo. Semplice, facile da usare, a buon mercato. Il punto di vista promosso dal blogger vale la pena di essere ripreso:

L’hashtag riguarda più il segnale che il mezzo. È una buona idea e funziona. Tutti dovrebbero essere in grado di utilizzarlo. E va dato atto a Twitter che non sta cercando di bloccare gli hashtag. Non ha depositato alcun brevetto né si è lamentato per altri servizi simili.

Ecco dunque la domanda: se tecnicamente gli hashtag non appartengono a Twitter, allora di chi sono? La questione è problematica. Certamente non è frutto di una tecnologia proprietaria – come potrebbe essere un’applicazione – dato che sfrutta una semplice qualità di una stringa di caratteri dentro dei metadati, insomma una convenzione visibile di una opzione potenzialmente infinita dentro molti documenti: le immagini di Flickr o Instagram, file su Google Docs, altre applicazioni (come Vine, che a sua volta è uno degli hashtag più utilizzati su Twitter).

Forse la risposta migliore è che, attualmente, il simbolo # è l’epigono della “chiocciola” @, nata 40 anni fa, sopravvissuta a tutte le rivoluzioni informatiche. La prospettiva migliore, dunque, è che anche il “cancelletto” diventi un simbolo universale capace di attraversare le piattaforme secondo un protocollo standard. Per sempre connotato, per sempre gratis. L’alternativa è uno sfruttamento commerciale, previo deposito marchio, oppure una giungla di piccole diatribe legali su singoli hashtag di particolare fortuna.
Meglio di no.

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