Tunisia: la crisi passa da Twitter?

La sommossa tunisina è stata snobbata dalle TV, ma ha trovato ampio supporto su Twitter. Il microblogging può essere davvero considerato come una fonte informativa valida?
La sommossa tunisina è stata snobbata dalle TV, ma ha trovato ampio supporto su Twitter. Il microblogging può essere davvero considerato come una fonte informativa valida?

Mentre la Tunisia cerca di sollevarsi dai violenti scontri degli ultimi giorni, che hanno portato alla fuga del leader Ben Ali, ci si chiede quale sia il ruolo dei media in tutta questa vicenda. E mentre le TV nostrane sembrano essersi dimenticate della sanguinosa sommossa sociale delle ultime due settimane, fatta forse eccezione per La7 con il TG di Enrico Mentana, emerge prepotentemente il ruolo di Internet, in particolare dei microaggiornamenti di Twitter.

La presidenza militare di Zine El Abidine Ben Ali, iniziata nel 1987, ha condotto la nazione in uno stato di indigenza e repressione. Negli ultimi tempi, il clima autoritario si è tradotto nella limitazione delle libertà individuali e di stampa, nella disfatta economica del ceto medio e nella corruzione dell’intera classe politica. La popolazione, ormai allo stremo delle forze, ha quindi inscenato una disperata protesta di piazza, di cui il simbolo è un giovane fruttivendolo ambulante che si è dato fuoco perché il governo, in modo del tutto arbitrario, aveva confiscato il piccolo banco di frutta e ortaggi, unica sua fonte di sostentamento. Un fatto, questo, di cui il mondo è venuto a conoscenza tramite la Rete, perché i media tradizionali in molti casi hanno evitato di riportare le notizie di questa nazione nordafricana creduta pacifica.

Negli scandali di corruzione che hanno coinvolto Ben Ali, di cui proprio il Web ha giocato un ruolo fondamentale con le rivelazioni di Wikileaks, emerge con insistenza l’utilità dei social network per l’informazione. Twitter è diventato velocemente la prima fonte informativa della guerriglia tunisina, con aggiornamenti in tempo reale che hanno tenuto con il fiato sospeso gli Stati Uniti, la nazione che più ha risentito del silenzio forzato della TV. E mentre c’è chi parla già di “Twitter Revolution“, indicando nei social network un metodo di riscatto sociale, ne emergono anche dei limiti normalmente sottodimensionati.

Nelle ore dei più efferati scontri, Twitter è stato invaso di messaggi di commentatori preoccupati dalla situazione, così come sono apparsi numerosi video su YouTube e fotografie su Flickr per illustrare cosa stesse realmente succedendo nella capitale Tunisi. Errato, tuttavia, pensare che questi aggiornamenti provengano in prima persona dalle persone coinvolte. L’autoritarismo militare di Ben Ali ha per anni limitato lo sviluppo della Rete che, oltre a subire il blocco della navigazione dei siti non affini al governo, ha portato a un silenzioso controllo delle connessioni private. La scorsa estate, ad esempio, il comparto francese di ReadWriteWeb aveva scoperto come Ben Ali avesse organizzato un DNS spoofing su scala nazionale, atto a registrare illegalmente login e password, oltre che i contenuti, degli account Facebook, Gmail e Live.com dei propri cittadini. In un tale clima di controllo globale di Internet, durante gli scontri i reali aggiornamenti Twitter degli autoctoni sono stati, per forza di cose, centellinati.

La “Twitter Revolution” di cui oggi i media tessono le lodi, si è rivelata invece la semplice capacità di individui, non direttamente investiti dai fatti, di rilanciare, moltiplicare e ampliare le poche notizie che giungevano con il contagocce dalla guerriglia urbana. Così come sottolinea Evgeny Morozov su Net.Effect, non si è trattata di una vera e propria rivoluzione dell’informazione, bensì di news decentralizzate e caotiche moltiplicatesi online e pensate esclusivamente per una minoranza digitalizzata di persone. Per quanto i social network di giorno in giorno acquistino sempre più rilevanza per i cybernauti, la maggior parte della popolazione mondiale, spesso avvezza alle nuove tecnologie, si affida ancora ai media tradizionali per il proprio fabbisogno informativo. Allo stesso tempo, la Rete non può essere considerata come la causa della rivolta, perché ancora lontana da raggiungere un livello di penetrazione tale da coinvolgere i ceti più bassi o da abbattere i filtri di governo, come successo proprio a Tunisi dove le autorità hanno tentato di bloccare Facebook per evitare l’upload di materiale compromettente. Per gli scontri tunisini, il ruolo di Internet sembra relegato a quello dell’opera divulgatrice di Julian Assange che, tuttavia, senza l’eco mediatica delle fonti tradizionali da sola non avrebbe potuto sortire gli effetti sperati.

Date queste considerazioni, non bisogna però pensare che il ruolo di Twitter sia stato, a conti fatti, inutile. Sebbene non possa essere considerato come il fautore della rivolta né come una fonte informativa esaustiva, Twitter e i social media in generale hanno dimostrato la loro grande capacità di sopperire le carenze dei grandi editori che, forse per ragioni di interesse economico e politico, hanno vagamente snobbato la disperazione di Tunisi prima che gli scontri deflagrassero ai livelli attuali. A questo, si aggiunga anche la velocità di diffusione garantita dei microblogging, in grado di trasformare un fatto locale in istantaneo e globale. Una rapidità che, come sottolineato da Martyn Bryant su TheNextWeb, rischia però di diventare un’arma a doppio taglio, perché allunga inesorabilmente i tempi necessari per filtrare le notizie qualitativamente importanti da aggiornamenti sommari, fallaci o addirittura falsi.

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