La webtax va avanti nonostante le pressioni

La proposta di una tassa sulle multinazionali tech prosegue il suo cammino in commissione. Ma si levano anche proteste, dagli Usa e in Italia.
La proposta di una tassa sulle multinazionali tech prosegue il suo cammino in commissione. Ma si levano anche proteste, dagli Usa e in Italia.

La proposta di imporre una partita iva nazionale ai colossi della tecnologia e della Rete che operano in Italia per drenare fiscalità, altrimenti destinata altrove, prosegue il suo cammino. La cosidetta webtax è al centro delle cronache e stavolta sembra avere una possibilità di diventara legge, nonostante le proteste di un gruppo di pressione tutt’altro che ininfluente.

Il concetto passato con l’emendamento di Ernesto Carbone alla delega fiscale è entrato in circolo nel sistema parlamentare ed è stato trasformato in emendamenti alla legge di Stabilità. L’iniziativa di Francesco Boccia, che presiede la commissione Bilancio e Tesoro, riprende gli stessi argomenti e ha lo scopo di arrivare molto prima all’obiettivo dichiarato: far pagare più tasse ai big americani. Una questione di equità, dice Boccia anche oggi in diverse interviste e in un articolo a sua firma sull’Unità. Consapevole che l’ultima notizia sulla clamorosa inchiesta su Apple per frode fiscale gli dà man forte.

La web tax è legale oppure no?

Su questa proposta se ne sono lette di tutti i colori. In sostanza, tutti sono concordi nel ritenere paradossale che Amazon, Facebook, Apple, Google, paghino di tasse sul suolo nazionale cifre paragonabili a quelle di una singola persona ricca (Facebook paga 192 mila euro, Amazon un milione di euro), ma secondo la Camera di Commercio Usa in Italia la tassa violerebbe il Trattato di Libero Scambio tra Europa e USA. Inoltre c’è il rischio, sempre secondo gli americani, che danneggi la competitività del settore, che vale il 3,1% del PIL:

Da un lato si chiede agli investitori internazionali di scommettere sull’Italia, dall’altro, invece, si innalzano nuove barriere per difendere presunti interessi nazionali. In aggiunta, la formulazione di tale emendamento rappresenta una forte restrizione alla libertà di scelta dei consumatori italiani, siano essi individui o imprese, che vedrebbero ridotte le alternative per usufruire della vastissima gamma di “servizi online, sia come commercio elettronico diretto che indiretto, anche attraverso centri media ed operatori terzi”, essendo obbligati ad acquistare esclusivamente “da soggetti titolari di una partita IVA italiana”. Tale norma, se approvata, potrebbe esporre l’Italia ad una procedura d’infrazione da parte della Commissione Europea.

Argomenti ripresi anche da Confindustria Digitale, ma respinti fortemente dall’autore della proposta che già tra una settimana potrebbe diventare realtà:

Sono arrivato alla conclusione che la proposta sulla web tax in questione è una proposta sacrosanta. Perché è una misura di equità fiscale, innanzitutto, a tutela delle nostre imprese e del web stesso. E a chi dispensa critiche (il più delle volte senza neanche aver letto la proposta ma limitandosi a titoli strillati) vorrei chiedere: perché le multinazionali del web devono avere un trattamento privilegiato in materia di tassazione? Perché una delle mille aziende italiane che produce e fa profitti nel nostro Paese deve pagare le tasse mentre chi dall’estero viene ad investire, fare pubblicità, e allo stesso modo profitti qui in Italia può tranquillamente pagare le tasse in altri Paesi (come Lussemburgo o Irlanda) in cui le aliquote sono nettamente più basse e più convenienti delle nostre?

Prendetevi una vacanza dalle tasse in Irlanda. Questo uno degli slogan di maggior successo durante le manifestazioni a Dublino contro il fiscal compact europeo.

Roma o Bruxelles?

Ammesso che questo proposito sia lecito (il trattato di Roma è stato firmato in epoca pre-Internet e quindi non può essere di riferimento per questo tema) si notano pressioni e critiche fortissime nei confronti della web-tax. La bibbia della finanza internazionale, Forbes, ha attaccato il governo italiano con un editoriale che senza tanti giri di parole definisce «illegale” la tassa perché contraria al mercato unico continentale. Sottolineatura giusta, ma anche furba: caratteristica dell’Europa dei 27 è proprio l’unione dei mercati e la mancata armonia fiscale, sulla quale le compagnie americane marciano.

Secondo molti commentatori, compreso Guido Scorza – che certamente non può essere etichettato come lobbista pro Usa – o ci pensa l’Europa oppure si rischia davvero di imporre delle barriere doganali allo scambio di beni. È anche vero che Bruxelles ha inserito il tema in agenda, quindi l’Italia potrebbe anche fare da apripista, altro che infrazione.

La battaglia delle cifre

Anche sulle cifre si è detto di tutto. Probabilmente il miliardo di euro profetizzato è lontanissimo dal vero, perché concentrandosi sul mercato pubblicitario – la leva fiscale adottata dall’emendamento – si parla di cifre attorno al mezzo miliardo di euro complessivo, quindi tassato più o meno del 7% una volta calcolato l’imponibile si parla di qualche decina di milioni di euro. Questo non cambierebbe neppure inserendo l’e-commerce: ci vorrebbe un fatturato diverse volte più grande dell’attuale per arrivare a queste cifre. A Boccia però non interessano i numeri, ma il principio:

Al momento mi sottraggo dal balletto delle cifre e mi limito soltanto a dire che qualunque sarà il gettito effettivo, e sono certo sarà importante, dovrà avere una destinazione prioritaria: la riduzione del cuneo fiscale per lavoratori e imprese. Grazie a una tassazione equa e corretta vogliamo che le risorse che gli italiani spendono in Rete possano essere reinvestite al fine di rilanciare l’occupazione.

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