Charlie Hebdo: la libertà va difesa con la censura?

La Francia porta avanti un progetto di legge che prevede maggior censura sui reati di opinione online, affidando l'azione di filtro a Polizia e provider.
La Francia porta avanti un progetto di legge che prevede maggior censura sui reati di opinione online, affidando l'azione di filtro a Polizia e provider.

Il Governo francese ha voluto rispondere con forza e con simbolica decisione ai fatti che hanno ferito il paese transalpino in questi giorni: la strage del Charlie Hebdo troverà così risposta in un decreto, datato 8 gennaio 2015 e destinato a far discutere perché, sbandierando il vessillo della libertà, rischia di nascondere qualcosa di ben differente.

I fatti: la Francia intende operare una forte stretta sul Web, imponendo (come chiesto nelle scorse ore dal primo ministro Valls) un argine al terrorismo ed alla pedopornografia. La bozza prevede che sia la Polizia francese a stilare un elenco di IP pericolosi che i provider si troveranno costretti a filtrare. La giurisprudenza risulta insomma aggirata: la Polizia e le istituzioni governative avrebbero mano libera sulla gestione di un libro nero dei siti che contravvengono alle normative, mentre ai provider resta il ruolo di esecutori della censura con tempi massimi di intervento fissati in 24 ore. Sarà ancora la Polizia ad avere il diritto di rivedere l’elenco in caso di ravvedimento dei titolari dei siti messi all’indice, ma ancora una volta non è prevista alcuna interazione con apparati giudicanti di alcun tipo.

Una procedura similare è già stata ampiamente criticata in Italia nel momento in cui uno schema similare ha tolto alla magistratura la possibilità di giudicare la lista nera degli IP: la volontà di agire con maggior velocità e determinazione ha portato all’approvazione di un regolamento AGCOM che distoglie parte delle funzioni di controllo alla magistratura riversandoli su un apparato istituzionale. E rendendo così più confusa la tradizionale divisione tra i poteri così come intesa in passato.

Per rispondere chi ha attaccato il giornale simbolo della libertà d’opinione, si tenta di porre una censura contro taluni reati di opinione. La discriminante è l’opinione. Il che profuma poco di “libertà”, seppur suoni scomodo in queste ore remare contro azioni richieste a gran voce dalle piazze.

Je suis Charlie: emotività e confusione

Sono ore confuse e su questo occorre capirsi: ore nelle quali una moltiplicazione di notizie, interpretazioni e significati è fluita sull’opinione pubblica generando grandi apprensioni, striscianti paure e reazioni emotive non sempre giustificate. E molto spesso lontane dalla logica. Il contesto è fondamentale, perché tratteggia la scenografia di una rappresentazione che sta per andare in atto, nella quale tutti i protagonisti sembrano voler difendere la libertà, ma dove in realtà tutti stanno difendendo la propria accezione di libertà e non quella più generale, con la “L” maiuscola, quella che si erge a principio universale e assoluto.

Perché la situazione va letta per quel che delinea: all’urlo di “Je suis Charlie”, l’occidente ha deciso non tanto di difendere la libertà di opinione, ma di impedire che talune opinioni pericolose possano attecchire generando nuove cellule terroristiche. Si censura per difendere la libertà. Il nome Charlie Hebdo diventa improvvisamente un ossimoro, poiché viene a descrivere la crasi tra l’idea della libertà di opinione e l’idea della necessità di censurare opinioni contrarie e pericolose. L’emotività (e non ci si nasconda: la necessità di parlare al ventre della popolazione) rischia di suggerire la direzione sbagliata, perpetrando errori già compiuti in passato: una reazione uguale e contraria, sia pur se mascherata da democrazia, non è il modo migliore per esaltare un valore alto ed universale quale quello della libertà.

Pericoloso poi, inutile ora

Il decreto non solo cela aspetti pericolosi, ma peggio ancora si potrebbe rivelare del tutto inutile. Questo perché un filtro imposto a livello di DNS altro non fa se non celare alcuni indirizzi IP agli utenti che fanno uso di quello specifico DNS. Questa azione ha dimostrato come si possano raccogliere risultati incoraggianti a livello di massa, poiché sono in molti a non cambiare i DNS preimpostati dai provider e quindi si può ad esempio immaginare di utilizzare il sistema per fermare la pirateria online (e così è stato fatto, anche in Italia, con risultati di sostanza). La lotta al terrorismo, però, è una lotta che non si fa sulle masse, ma sulle nicchie. Non si fa sui grandi numeri, ma su piccole cellule. Aggirare la “lista nera” è infatti del tutto semplice: è sufficiente cambiare i DNS in uso ed utilizzarne di alternativi (tipo OpenDNS o Google DNS) per poter accedere a qualsivoglia risorsa online senza alcun problema.

Se un filtro operato a livello di DNS è l’unica misura che si intende portare avanti per rispondere alla strage del Charlie Hebdo, allora l’errore è tanto grave quanto ingenuo: perché esalta un principio sbagliato e perché non raggiungerebbe comunque l’obiettivo. Quale cellula terroristica non sarebbe in grado di consigliare DNS alternativi ai propri seguaci, in un mondo dove l’ISIS usa YouTube per rivendicare le proprie azioni e dove gran parte della propaganda è affidata al Web? E come si può pensare che una stretta sul Web possa essere necessaria in un mondo dove terroristi noti e già segnalati alle autorità hanno potuto muoversi liberamente in andata e ritorno verso la Siria, addestrandosi e poi portando la propria sete di vendetta nel cuore dell’Europa?

«Casomai», suggerisce opportunamente Stefano Quintarelli, «avrei suggerito di fare una lista di ip address sensibili e dare un meccanismo per – in determinati momenti e con decisione di un giudice – loggare le connessioni a quel ip address». Semplice e logico.

Terrorismo e pedopornografia

Senza approfondire il testo, un dubbio sorge spontaneo: perché aggiungere a questo schema di intervento anche la pedopornografia? Se l’urgenza è quella di rispondere alla propaganda terroristica (e il fine potrebbe giustificare il mezzo, se l’urgenza lo dovesse dettare), perché inserire anche la pedopornografia in questa proposta, ampliando lo spettro delle casistiche e gravando in modo determinante sul lavoro che cadrà in capo alla Polizia? Ancora una volta, il sospetto è che il decreto voglia parlare al ventre della popolazione in un momento in cui proprio il ventre del paese chiede risposte, reazioni, rivalse. Del resto chi potrebbe obiettare sulla bontà di un decreto che tenta di arginare terrorismo e pedopornografia? Due argini al prezzo di uno, per una bozza che però rischia di diventare una minaccia della libertà più che un suo fortino.

Un decreto, insomma, che potrebbe avere una finalità che va oltre la sua stessa approvazione: nutrire la sete di azione della cittadinanza, la quale non potrebbe tollerare un encefalogramma piatto da parte del Governo di fronte alla ferita inflitta alla città di Parigi. Hollande, messo alle strette da note vicende interne, potrebbe vedere in questa circostanza un momento per ritratteggiare il proprio profilo di Presidente, ed intende cogliere l’occasione puntando il dito contro il terrorismo senza se e senza ma.

I “se” e i “ma” sono però sostanziosi a livello di critica del dispositivo di legge portato avanti. Una bozza che va discussa e va analizzata, perché se approvata rischia di trasformare la libertà di espressione in argomentazione buona per intenti censori. La situazione potrebbe divenire paradossale se l’ossimoro si facesse realtà.

E di fronte a tutto ciò non si può tacere: che il ventre dell’opinione pubblica trovi soddisfazione in principi alti, non in velleità superficiali. E che la libertà torni a essere Libertà con la L maiuscola. La stessa che aveva consentito al Charlie Hebdo di essere quel che era prima che tutto ciò fosse cominciato.

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